Roma 1900 – Roma 1989
Francesco Di Cocco, nato a Roma l’1 luglio 1900, da genitori fiorentini trasferitisi da qualche anno nella capitale, vi si forma, dopo l’impegno militare nel 1918 in Albania iniziando un’attività pittorica attento soprattutto al dinamismo futurista di Balla. Frequenta in particolare Leonardo Castellani, allora a Roma scultore. Fra 1922 e 1923 è a Parigi. Si occupa in quegli anni anche di ceramica. A Roma frequenta la “Terza saletta” del Caffè Aragno. Verso metà degli anni Venti il suo orientamento pittorico si fa tuttavia decisamente ricostruttivo, orientato al dialogo con il museo. A Roma, esordisce alla III Biennale nel 1925, per intercessione di Oppo; partecipa alla I Mostra del Novecento italiano nel 1926; nel 1927 espone con Emanuele Cavalli e Giuseppe Capogrossi a Roma nell’Hotel Dinesen, suscitando l’interesse di Corrado Pavolini e di Wart Aslan che sottolinea: “Di Cocco desume alla sua pittura un carattere astratto dalla contemplazione degli antichi. Da antiche tecniche ricava sorprendenti risultati, come oggi usa dire, metafisici”. E sempre nel 1927 è presente in una collettiva alla Casa d’Arte Bragaglia. Stabilisce allora lo studio in Villa Strohl-fern. L’anno seguente soggiorna a Parigi, dove in dicembre espone con Cavalli e Fausto Pirandello nella casa della contessa Castellazzi-Bovy. Rientra a Roma all’inizio del 1929, quando prende parte con successo alla mostra al Convegno di Roma, a Palazzo Doria, ove espone dipinti di solida disposizione compositiva quasi paratattica quale L’arca di Noé, del 1926 e Pentimento di Pietro, del 1927 e ove avviene un confronto con Scipione e Mafai, già di clima “romano”. E poco dopo partecipa con cinque dipinti e undici disegni alla Prima Mostra del Sindacato Laziale Fascista degli Artisti, in Palazzo delle Esposizioni criticamente attento in tale occasione al suo lavoro Roberto Longhi, che lo considera nell’ambito di quelli che chiama “irrealisti”. La pittura di Di Cocco è caratterizzata in questi anni da un senso magico di attesa, che sospende le figure in una statica contemplazione, caratteristica del Novecento romano di cui Guidi è il riferimento più prossimo. Nel 1917 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma. Lo stesso anno rimane colpito dall’esibizione dei Balletti russi al Teatro Costanzi e dalle opere futuriste. Marinetti gli invia una cassa di libri, incoraggiando la sua adesione al Futurismo. Il 1929 è un anno di intensa attività: si susseguono la mostra al Circolo di Roma a Palazzo Doria con Bandinelli, Ceracchini, Mafai, Scipione, Spadini e Frateili; la III Mostra d’arte marinara; la I Sindacale laziale; la II Mostra del Novecento a Milano. Nel 1931 è presente alla I Quadriennale romana; l’anno seguente ha una sala personale, con una trentina di opere, alla III Sindacale romana, e partecipa alla XVIII Biennale di Venezia. Nel 1933 è la volta della V Triennale di Milano e nel 1934 collabora all’allestimento della IV Sindacale ai Mercati Traianei, fornendo anche materiale per la sezione delle arti decorative. Nel 1935 partecipa alla II Quadriennale e si dedica alla decorazione, lavorando anche in Belgio. Nel 1937 lavora al Padiglione italiano all’Esposizione internazionale di Parigi e nel 1938 si imbarca per New York, dove in primavera tiene una personale nella The Comet Art Gallery. E fra fine del medesimo anno e inizio del 1939 realizza murali per alcuni stands progettati dall’architetto Andrea Busiri Vici, e per il ristorante, dell’architetto Gustavo Pulitzer, nel Padiglione italiano della World Fair 1939.
Alla fine del 1938 riceve dalla Quadriennale romana una lettera in cui, nella mentalità nuove leggi fasciste di discriminazione razziale, gli si chiede di specificare la propria razza. Ricorderà: “Non risposi mai a queste lettere né ad altri telegrammi inviatimi dalla Quadriennale. Non fui mai iscritto al P.N.F. e, pur non essendo ebreo, quell’idea razzista mi disgustò molto e non tornai più in Italia durante il fascismo”. Fra 1939 e 1940 vive a Città del Messico, stabilendosi quindi a San Francisco, e in California dove rimarrà fino al 1953, tenendovi personali nel Santa Barbara Museum nel 1944 e nel 1951 e nel M.H. de Young Memorial Museum, a San Francisco nel 1945. Dopo un circoscritto momento di metamorfismo organico che caratterizza la sua breve esperienza messicana, nella sua pittura s’accentua una dimensione fantastica in un pronunciamento di visionarietà onirica che caratterizza in particolare le fascinose tempere realizzate fra 1941 e 1943. E tale sua ricerca, che si distende fino al 1946 in meno inquietanti e invece solenni scenari “neometafisici” in olii sul tema e con un proprio accento agevolmente si colloca nell’ambito della prima stagione d’affermazione surrealista negli U.S.A.
Da metà del 1953 alla fine del 1954 Di Cocco vive nuovamente in Italia, a Roma. Ove nel 1953 realizza alcuni murali per l’Esposizione Nazionale dell’Agricoltura. In una accelerazione evolutiva, questa breve esperienza lo porta a superare decisamente il sincopato narrativo precedente per una costruzione segnica elementare, interessato alla disinvolta, fantasiosa, e soltanto analogica esplorazione, quasi corsiva, di gangli, di “embrioni”, dipanati come in annotazioni di sciami trascorrenti di entità protozoiche; vicino agli archetipi segnici frequentati allora da Cagli e da Capogrossi. Intanto nel 1954 ha preso parte alla X Triennale di Milano, presentandovi, sempre per l’E.N.A.P.I., scatole di legno intarsiate su suo disegno non-figurativo. Fino al 1969 vive fra New York ed East Hampton, dove nel 1956 tiene una personale alla Guild Hall Art Gallery. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la sua pittura si rinnova radicalmente, sondando appunto le possibilità espressive segniche del gesto, in una sintesi cromatica ridotta al bianco e nero, aggiungendovi tuttavia una personale sperimentazione nei delicati passaggi di grigi. Partecipe dell’Informale nordamericano, fra gesto appunto, segno e materia. Lo hanno documentato le due personali tenute nel 1959 a New York nelle gallerie d’avanguardia Tanager nella quale esponevano Kline, De Kooning, Mitchell, Marcarelli e Berta Schaefer.
Ma all’inizio dei Sessanta Di Cocco porta alle estreme conseguenze la riduzione cromatica e, abbandonata la componente segnico-gestuale, arriva a un sostanziale monocromatismo. Poco oltre metà del 1961 tuttavia si ammala gravemente di nervi ed è ricoverato in una clinica psichiatrica di New York, dalla quale è dimesso alla fine del 1963. Ritornato a lavorare nel 1964, sviluppa nuovi interessi, da scultore, per una costruzione plastica di forme minimali tridimensionali, nelle quali un particolare ruolo “lirico” assumerà il colore monocromo o poi in leggere sfumature. Stagione nuova, questa, che costituisce l’aspetto conclusivo della sua ricerca. A New York ha rapporti particolarmente con Claudio Cintoli, che di poco poi lo precede nel ritorno in Italia, avvenuto appena oltre metà del 1969, a Roma. Ove sviluppa ulteriormente la propria ricerca plastica minimalista, soprattutto in termini di arricchimento di gradazioni cromatiche, finendo per connettere quell’esperienza alla vicenda di una “nuova pittura”. E intanto, negli ultimi lunghi anni romani d’attività, continua a realizzare incessantemente modellini di sculture, in una sintesi fra essenzialità plastica e consistenza assai ricca della loro aggettivazione cromatica, proponendo oggetti pittorico-plastici a provocazione lirica nei quali si esprime uno stupefatto personalissimo incantamento, tutto d’ascolto interiore.
Esiti significativi di quest’ultima sua, peraltro intensa, stagione creativa, sempre più solitaria, tutta ancora da riscoprire e adeguatamente valutare, concludono l’ampia antologica che Enrico Crispolti nel 1984 cura nella Chiesa di San Paolo a Macerata, per Pinacoteca e Musei Civici, riportando l’attenzione sul lungo percorso complessivo del suo lavoro, fra Futurismo e Scuola Romana, rilevante segmento già riproposto prima e poi anche in significative rassegne di taglio storico, ma sopratutto analiticamente poi ricostruito in un’importante mostra retrospettiva tenutasi nel 1991 nella Galleria Arco Farnese, a Roma, interamente dedicata al suo lavoro fra le due guerre e fra Surrealismo, Informale, e Minimalismo plastico di puro colore territori appunto da meglio esplorare. Ma intanto Di Cocco si è tolto la vita, a Roma, il 24 maggio 1989.